L’intenso canto di libertà di Goliarda Sapienza

La forza dolorosa. La sofferenza che passeggiando tra anima, mente e cuore si trasforma in energia.

Chiunque intenda di cosa scrivo e si identifichi in queste parole, non dovrebbe lasciarsi scappare l’occasione di vivere un’esperienza che lascia il segno, l’esperienza che viene fuori dal coinvolgimento di un’interpretazione vibrante. Quella di Donatella Finocchiaro nello spettacolo teatrale: Il filo di mezzogiorno adattamento del volume di Goliarda Sapienza.

In scena dal 3 all’8 maggio al Teatro Franco Parenti di Milano.

La Finocchiaro ricorda, a chi ne avesse bisogno, quanto possa essere aderente alla sua professione. Basta 1 ora e 40 per essere stupiti dalla prova vincente di un’attrice. Basta dare ascolto al sentire.

Quando Mario Martone regista e sceneggiatore, ha incontrato la realtà di Goliarda Sapienza – autrice del successo postumo: L’arte della gioia, è accaduta la magia.

Rapiti da azioni, luci, ombre, parole, ci si ritrova in un labirinto di pensieri, arricchiti, grazie alla perfetta regia teatrale/cinematografica. Il libro dal quale è tratto lo spettacolo è un potente romanzo autobiografico, un testo d’amore per l’analisi e al contempo il racconto di  contaminazioni psichiche. Una donna fuori da tutti gli schemi e dalle ideologie politiche del suo tempo: Goliarda fu partigiana, femminista,  controcorrente e contro il conformismo.

Lo ha osteggiato con ogni mezzo, primo fra tutti la scrittura. La sua, fluida, libera, struggente, lirica e lucida. Il romanzo: Il filo di mezzogiorno (1969), per lo spettacolo riadattato da Ippolita di Majo, ripercorre con dovizia di particolari il percorso psicanalitico vissuto dopo un periodo di depressione sfociato in un tentativo di suicidio.

Goliarda insegue la sua memoria, insegue i ricordi, le sensazioni, le libere associazioni, l’analista la guida, la accompagna, e riuscirà a condurre la scrittrice dalle tenebre, nelle quali era sprofondata, alla luce della coscienza, al recupero della propria identità.

Il racconto è un viaggio attraverso le sedute terapeutiche della protagonista che, dopo essere stata sottoposta, in una clinica psichiatrica a molti elettroshock, si ritrova, pur non ricordando nulla, a casa sua, infreddolita nella paura.

Il terapeuta lavora per riportarla con coraggio alla vita, per restituirle la sua memoria, si reca da lei ogni giorno a mezzogiorno: Ignazio, apparentemente sicuro, tremebondo nel fondo;

Molteplici i piani narrativi che si intersecano di continuo, come accade anche nella testa, nelle emozioni e nell’inconscio. La scrittura è svincolata dalle leggi spazio/temporali che detta la realtà. Il tempo è il presente del mondo interno di Goliarda. Il tempo dell’analisi selvaggia, il tempo dei fantasmi, dei desideri. In scena, degno di attenzione, Roberto De Francesco interpreta lo psicoanalista freudiano, fiducioso nella parola e fragile nel cuore: smarrito, accartocciato, infine esule. L’incontro, il conflitto di due fragilità che pian piano prendono nuova forma.

Regressione, rievocazioni, proiezioni, transfert, sentimenti indomabili e coraggiosi, l’amore: “Mi prese tra le braccia e mi protesse e fu il mio uomo, mio padre, mio fratello, il mio amico”.

Due persone che parlano in una stanza, due, le zone del palcoscenico, due, le zone del mondo interno di Goliarda. Lo spazio vuoto, buio, onirico, appartato, solitario, e poi, lo spazio della relazione, della realtà, dove i fantasmi seppur arginati da dati reali, prendono corpo.

I due spazi si cercano, si dominano, precipitano l’uno sull’altro. Lui la chiama “signora” e lei si sente a disagio per questa parola: “Perché insiste tanto su quel signora? Mi innervosisce”, e, ancora: “Come si permetteva, con quel signora e signora, quei baciamani, quell’aria distinta, di insinuarmi quelle cose!”.

Nella passione delle sedute affiorano i timori di entrambi, poi, i corpi, le dita sul viso, sulle labbra: l’intimità si spalanca come un abisso.

“Lei è molto coraggiosa, forse un po’ troppo per una donna” le dice lui.

Una intricata matassa di emozioni incandescenti. L’armonico canto dei pescatori delle isole Eolie, in sottofondo.

La paziente prevale sull’analista che resta fulminato dell’ironia della donna, dalla sua intelligenza, dal pensiero spregiudicato.

Da questo corpo a corpo curato con la scrittura, Goliarda viene fuori sanguinante ma di nuovo padrona della sua disperata vitalità.

(Come avrei potuto non amare tutto questo, io?)

Lo studio del mio analista era un rettangolo pronunciato, per un anno l’ho guardato seduto su una poltrona, schiena al lato corto dove c’era la porta d’ingresso, l’analista seduto davanti a me. Guardavo la porta a destra sul lato lungo e pensavo che oltre quella porta ci fosse la stanza col lettino.

Quando il mio analista mi disse che nella seduta successiva mi avrebbe voluto sul lettino gli chiesi: “Dunque andremo in quell’altra stanza?” ma lui mi invitò a guardare alle sue spalle: “Il lettino è lì”.

Non l’avevo mai visto. Forse da questo episodio è scaturita l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda, non lo so. So che ho amato il mio analista Andreas Giannakoulas e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo. 

Mario Martone.

Produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Catania

Scene: Carmine Guarino.
Costumi: Ortensia De Francesco.
Luci: Cesare Accetta.

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